Psychopath Whisperer: Una vita nella mente criminale

18 Aprile 2014
Giovanni Pili
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Kent Kiehl è un neuroscienziato che si divide tra il Mind Research Network e l’Università del New Mexico ad Albuquerque, ha speso l’intera vita nello studio degli psicopatici. Ha pubblicato un libro che raccoglie vent’anni di interviste a persone la cui mancanza di empatia e compassione li ha resi tra i soggetti più pericolosi per la nostra incolumità: Psychopath Whisperer.

psychopath-sm-211x300Fin’ora Kiehl ha scansionato i cervelli di circa 3.000 persone condannate per reati violenti, di queste 500 sono psicopatici. Siamo portati a pensare che si tratti di un “disturbo” (scusate l’eufemismo) irreversibile, ma Kiehl non è dello stesso avviso, anzi auspica la possibilità di recuperare i soggetti interessati, come spiega in una intervista pubblicata su Wired:

«Sono così incoraggiato dal lavoro pionieristico che sta avvenendo in luoghi come il Mendota Juvenile Treatment Center nel Wisconsin, dove si stanno prendendo giovani ad alto rischio … trattandoli con vari intensi programmi volti a ridurre le probabilità che tornino a delinquere. I trattamenti che sembrano fare una grande differenza sottolineano l’importanza dei rinforzi positivi rispetto alle punizioni. Sì , sono incarcerati al momento, è la loro punizione per i crimini che hanno commesso, ma le strutture, invece di limitarsi a punirli quando fanno qualcosa di male, dovrebbero anche premiarli quando fanno qualcosa di buono. Se essi interagiscono positivamente col personale andrebbe data loro una piccola ricompensa, magari un videogioco nella loro cella per il fine settimana. Allo stesso modo … se si utilizza il rinforzo positivo sono molto più propensi a fare quello che vuoi che facciano».

Molti sono gli stereotipi sul loro conto – dovuti soprattutto alle rappresentazioni cinematografiche dei soggetti affetti da psicopatia – eppure si tratta di persone “nella norma”, se vogliamo trovarne uno è nell’uomo medio che dobbiamo cercare. Sono tanti, secondo lo scienziato almeno 1 individuo su 150 ne presenterebbe le caratteristiche e quindi le potenzialità. Non dobbiamo insomma pensare che tutti gli psicopatici debbano commettere crimini violenti, benché riescano comunque a combinare diversi guai; si tratta di soggetti disorganizzati, che spesso conducono una vita nomade.

Un luogo comune ancora molto radicato vuole che psicotici e psicopatici siano la stessa cosa. In realtà nulla vieta ad uno psicotico di provare emozioni, si tratta di un soggetto affetto da scissioni nell’Io, con seri problemi di personalità, solitamente accompagnati da allucinazioni, disturbi del sonno, instabilità umorale e spesso tendenze suicide. Quando parliamo di uno psicopatico invece dobbiamo pensare ad un individuo dall’ego affatto dilaniato, anzi esageratamente forte, tanto da non avere alcuna considerazione dei sentimenti altrui, che del resto non è in grado di capire, la paura di ritorsione per i propri gesti è pressoché assente. Tanto per intenderci, la storia è piena di criminali psicopatici e geni psicotici.

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Kent Kiehl

Per Kiehl si tratta comunque di una questione di salute mentale, queste persone hanno una forma di disabilità nelle più disparate situazioni: casa, lavoro, famiglia, amici, ecc., che li porterà inevitabilmente in galera o in clinica. La loro vità è un disastro ma non sono capaci di curarsene, né per sé stessi, né per gli altri. Per Kiehl l’origine è soprattutto fisiologica – mentre uno psicotico potrebbe essere tale anche senza danni cerebrali, per quanto spesso venga accertata una predisposizione genetica – gli psicopatici hanno una materia grigia dal 5 al 10% meno densa del normale, inoltre, il tessuto che connette il sistema limbico ai lobi frontali è interrotto. Si tratta di regioni cerebrali di estrema importanza nell’elaborazione delle emozioni e del senso di responsabilità.

Terapie mirate, che non si limitino a “punire” e la conoscenza delle origini della psicopatia potrebbero far risparmiare tantissimo alle strutture penitenziarie, senza contare i vantaggi per la pubblica sicurezza. Attualmente i programmi in uso negli Stati Uniti sono stati in grado di ridurre la recidività del 50%. In cura ci sono anche i bambini ed è per loro che sussistono ancora delle difficoltà, secondo Kiehl:

«Dal 10 al 15% dei bambini hanno ancora una recidiva violenta, nonostante il miglior trattamento psicologico. Ciò che la scienza del cervello potrebbe fare è contribuire ad aggiornare il processo di trattamento cognitivo … ma questi ragazzi hanno bisogno di un intero anno o più di trattamento. Potremmo essere in grado di utilizzare le neuroscienze per migliorare il processo decisionale . Questo è il genere di cose che speriamo di fare».

Quella di Kiehl non è solo una lezione di psichiatria, ma anche di civiltà. Voltare le spalle – per quanto comprensibile in questi casi estremi – non è mai la soluzione, anzi, a lungo andare acuisce il problema; perché semplicemente non lo si affronta davvero, preferendo nasconderlo. Le conseguenze spesso finiscono nei titoli di cronaca.

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