Hipster: ascesa e declino di un genere

23 Giugno 2014
Veronica Valli
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Josh ha 30 anni, è un artista-cuoco che vive in un magazzino adattato ad abitazione in quel di Hackney, East London. Josh ha la barba, gli occhiali e tiene molto a cuore la provenienza del caffè che sorseggia ogni mattina. Paga le tasse, non ha un lavoro standard dalle 9 alle 17, non ama i trasporti pubblici ma preferisce guidare la propria bici. Sulla carta, Josh è quello che si definisce il classico “hipster”, termine che è diventato sempre di più un dispregiativo o un modo per prendere in gior le ultime tendenze giovanili. “Non odio gli hipster” dice Josh “ma essere un hipster non vuol dire più nulla, dunque non mi definisco tale”.

LA NASCITA DEGLI HIPSTER – Ma come è nato il fenomeno – e la definizione – di hipster? Secondo l’Urban Dictionary, gli hipster sono una “sottocultura di uomini e donne tra i 20 e i 30 anni i cui valori sono il pensiero indipendente, la contro-cultura e la politica progressista”. Inizialmente gli hipster erano solo giovani di New York e di Londra ma poi questo fenomeno di costume si è diffuso a macchia d’olio ed è possibile trovarli davvero ovunque. Ma come fu per gli emo qualche anno fa (ma anche per i truzzi), da moda giovanile a stereotipo di cui prendersi gioco, il passo fu breve. “Il punto è che nel momento in cui abbiamo chiamato “hipster” un hipster, la parola ha perso di significato” dice Chris Sanderson, co-fondatore dell’agenzia di previsione di trend “The Future Laboratory”. In accordo con questo era anche un rapporto stilato il mese scorso dai ricercatori dell’Università del New South Wales, secondo cui il look hipster non è più di moda e soprattutto, barbe e berretti non sono attraenti come si crede.

IL DECLINO – Gli hipster stanno quindi per morire? Non proprio, dice Sanderson, più che altro si stanno evolvendo. Durante un’intervista rilasciata all’Observer ha infatti detto che a suo parere, adesso ci sono due tipi di hipster, cioé quelli contemporanei, con la barba, che amiamo odiare e poi i “proto hipster”, i veri riformatori. Storicamente, i proto-hipster sono stati intenditori, persone che fanno eccezione distaccandosi dalle norme. Nel corso degli anni, però, hanno ispirato una nuova generazione di gente che ha trasformato il concetto di hipster in una parodia commerciale. Queste persone vogliono apparire in un certo modo, fare determinate cose, senza tuttavia fare ricerca, finendo così per accantonare le diversità di cui si facevano paladini prima, per appiattirsi tutti su uno stesso livello. Oramai, quindi, non è più possibile distingure gli hipster dai proto-hipster. In realtà, si potrebbe dire che dare una definizione al termine “hipster” oramai è molto complicato, il che alimenta forse le incongruenze che ci sono nella categoria.

NEGLI ANNI 40 – Ma quando è nata questa parola? Sembra che sia stata coniata negli anni Quaranta per definire che respingeva le convenzioni sociali, come i bianchi della classe media che ascoltavano jazz. Poi è arrivata la beat generation, Jack Kerouac e William Borroughs, poi Norman Mailer che provò a definire gli hipster in un suo saggio, definendoli come la generazione del dopoguerra fatta di americani bianchi e ribelli, delusi dal conflitto mondiale, che avevano deciso di “divorziare dalla società”. Successivamente ci sono stati altri movimenti giovanili che li hanno soppiantati e la parola è andata in disuso fino gli anni Novanta, quando poi gli hipster divennero roba su cui fare parodie.

SIAMO TUTTI (UN PO’) HIPSTER – Adesso, circa vent’anni dopo, basta avere il jeans giusto per acquisire un look da hipster ma anche bere cocktail serviti in vasetti di marmellata o una t-shirt con una scritta particolare, insomma: da archetipo del diverso, è diventato un qualcosa di estremamente mainstream. Ma cosa c’è, quindi, nel futuro degli hipster? “Penso che ci sarà una revisione. Magari a partire proprio dal look” dice ancora Sanderson “che potrebbe essere più macho” dunque le cose sono destinate a cambiare. Ad esempio, ultimamente una delle tendenze più in auge sembra la cosiddetta “normcore”, termine creato a New York dall’agenzia di K-Hole, che altro non è che uno stile “normale”, nato in reazione alla mercificazione dell’individualità, perché non basta una t-shirt per sentirsi unici e diversi dalla massa. Ma tra hipster, normcore e quant’altro, quello che spicca sempre è la volontà delle persone di classificarsi, di appartenere a un gruppo, che collide proprio con l’idea di unicità. “Se mi etichetti mi annulli” diceva il filosofo Soren Kierkegaard in tempi non sospetti, tanti anni prima della querelle sugli hipster e forse per tanti giovani sarebbe il caso di cominciare a riconsiderare questo motto di spirito.

Articolo ripreso da The Guardian

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