Morte: la difficoltà di arrendersi di fronte al nemico

1 Dicembre 2014
Federica Russo
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709c0defdd00c850f68af4278c0cc886_f18329Quando ci ritroviamo di fronte la morte il nostro cervello come reagisce? se noi siamo i visitatori e stiamo seduti accanto ad un letto d’ospedale dove vi è sdraiato un nostro caro con un tumore, ormai diffuso, con una rottura femorale, stanco, debilitato e a cui i medici offrono l’ultima possibilità con una cura palliativa. Pensereste che è davvero in fin di vita? sareste così lucidi da affermarlo? o, implicitamente, fate finta di non voler davvero capire quale sia il problema?

Margaret Mccartney sulla rivista The Indipendent fa l’esempio di un marito e una moglie ormai in fin di vita. Il marito vorrebbe che lottasse contro la malattia senza rendersi conto che ormai non c’è più niente da fare. Innanzitutto la cura palliativa è semplicemente una cura che non va a contrastare la malattia, semmai la fa rallentare allungando di poco la vita. Spesso i medici la utilizzano sotto accordo dei parenti a cui si apre, purtroppo invano, una lampadina di speranza. Uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2012 ha rilevato che il 69% dei pazienti con cancro del polmone e l’81% delle persone con tumore intestinale non ha capito che la chemioterapia palliativa non sarebbe stata in grado di curare il loro cancro. Tuttavia, tramite una revisione sistematica delle prove per la chemioterapia in un tipo di cancro ai polmoni, pubblicata nel 2008, si è scoperto che ha aumentato il tasso di sopravvivenza del 20% in un anno.

Non ci si rende conto in quel momento che forse la qualità della vita è preferibile alla quantità. In quel momento si vuol credere che il malato deve necessariamente avere la forza di reagire. Quante volte leggiamo sui necrologi: “ha perso la sua battaglia contro il cancro“. Ma non si tratta di una battaglia, è una malattia e deve essere trattata come una malattia. Verità nuda e cruda, ma si tratta solo di dimostrarlo a sé stessi prima di tutto. Ritrovarsi poi nella condizione di decidere, è vero, fa cambiare tutti i piani della nostra mente. Cosa si sa della morte? del momento prima di morire? il malato vorrà morire per non soffrire? o vuole continuare a vivere? Inutile cercare delle risposte, perché in quei momenti la lucidità perde la sua strada dentro la nostra mente. Nel 1977, Susan Sontag ha scritto: “La malattia viene interpretata come, in fondo, un evento psicologico, e le persone sono incoraggiate a credere che si ammalano perché (inconsciamente) vogliono, e che essi stessi possono curarla lottando con le proprie forze, in questo modo si può scegliere di non morire della malattia “.

D’altra parte anche il medico entra in crisi, dato che, dotato anche lui di sentimenti, prova compassione per la famiglia e la spinge a fare le cure palliative, come se stesse prescrivendo un antidolorifico: sa già che lenirà un po’ il dolore, ma sa che l’infezione non andrà via. Una revisione sistematica pubblicata sul BMJ nel 2003 ha rilevato che i medici tendono a sovrastimare costantemente il tempo di vita che rimane in base a ciò che si aspettano i pazienti malati terminali.

In definitiva le cure palliative allungano la vita, ma debilitano ancora di più. Margaret Mccartney crede infatti che la soluzione migliore sarebbe quella di passare gli ultimi giorni di vita in casa con parenti e amici e riempire di allegria ed emozioni gli ultimi giorni anziché lottare contro un nemico che, si sa già, è troppo forte rispetto a noi.

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